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Spazio infinito

24 ottobre 2006 di roberto

Prima Classificata “Una Favola giovane” sezione Scuole Secondarie

Spazio infinito

di Elisa Masinara da Casalecchio di Reno
Liceo “Leonardo da Vinci”, Casalecchio di Reno

Spazio infinito. Terra. Avvicinati ancora…vieni avanti…Amsterdam. Corri, presto entra. Casa mia. Eccoti finalmente! Questa è una favola un po’ fuori dal comune, che racconta i sogni di un bambino che ho conosciuto tanto tempo fa. Un bambino che anche quando divenne adulto continuò a guardare le cose con gli occhi ingenui di un bambino. Era testardo, e io gli ho sempre fatto credere di odiarlo, ma in realtà per me era linfa vitale. Entrava in casa mia e portava con sè il profumo della primavera, il profumo del mare, il profumo dei ciliegi in fiore. E questa è la sua storia. Era una grigia mattina di novembre, e io mi sentivo già molto vecchio. Era il 1940. Piombò in casa mia trascinato dal padre, un burbero uomo molto alto e molto ingombrante che a malapena passava dalla porta di casa, si portava dietro un piccolo peluches che forse in origine doveva avere avuto la forma di un orsetto, ma che sicuramente aveva visto tempi migliori. Non sapevo per quale ragione quei due fossero nel mio salotto ma offrii comunque loro del tè e dei biscotti. Il bambino si chiamava Klaus e aveva dieci anni. Chiesi cosa volevano da me e il padre mi rispose che desiderava che io istruissi il figlio perché non aveva abbastanza soldi per mandarlo a scuola. Voleva che gli insegnassi a far di conto, a leggere, a scrivere e qualche nozione di storia e geografia. Non saprei dire perché in questo momento, fatto sta che accettai quella assurda proposta e mi improvvisai insegnante. C’era qualcosa in quegli occhi grandi che mi aveva rapito. Ero come assuefatto, come quando si fuma l’oppio. Iniziammo l’indomani e subito nella prima lezione mi trovai davanti a un duro ostacolo. A Klaus non interessavano né i calcoli, né le poesie. Lui voleva sapere come girava il mondo, voleva sapere perché stava scoppiando di nuovo la guerra, voleva sapere tutto sulla guerra appena trascorsa e continuava a ripetere “Ma perché non fanno la pace quelli là che governano gli stati? Anche io e Leopoldo litighiamo ma poi alla fine facciamo sempre la pace”. Ora, tralasciando che Leopoldo era il suo orsacchiotto, Klaus aveva colpito nel segno: da anni mi chiedevo anche io la stessa cosa. A sentirla uscire dalla bocca di un bambino sembrava la cosa più facile del mondo; come potevo spiegargli che non sarebbe stato così semplice? Continuava a ripetere che quando sarebbe cresciuto ci avrebbe pensato lui, sarebbe diventato colui che poteva donare la pace a tutti. Mi irritavo terribilmente quando mi diceva queste cose, perché pensavo di essere più maturo di lui e quindi di sapere benissimo come funzionava il mondo. Odiavo quel bambino con tutto me stesso per la sua arroganza, per quella sicurezza che gli invidiavo, perché io non l’avevo mai avuta, per la sua impertinenza, per la sua ingenuità. Eppure ogni volta che entrava in casa mia era come se fumassi l’oppio. Ero in pace con me stesso e sognavo mondi lontani, fuori dalla guerra e dalla follia del nostro tempo. In quella prima lezione mi limitai a spiegargli come andò la prima guerra mondiale, cercando di non prenderlo a calci, ma quando uscì di casa non sembrava soddisfatto. Quando usciva correva. Non so perché lo facesse e mi dissi che doveva avere fretta quel giorno, poi cominciai a osservarlo ogni giorno, e per un mese lui usciva e correva. Decisi di seguirlo. Usciva da casa mia, correva, correva. Si fermava in mezzo a un ponte gettava un sasso nel fiume e… correva. Scoprii che abitava in una casetta più bassa delle altre in una zona del centro. Lo vidi entrare in casa e aprire le finestre, sedersi sul davanzale e guardare fuori con aria di chi sogna… di chi spera. Tornai a casa tranquillo, pensando a Klaus e ai suoi sogni. Dovevo aiutarlo. Dovevo dargli la possibilità di cambiare il mondo. Di portare la pace. Non sapevo come avrei fatto e non sapevo perché corresse in quel modo per tornare a casa, anche se sognai che fosse desiderio di libertà. Rientrai in casa e vidi quanto era buia e vuota senza quel bambino con il suo orsacchiotto e le sue obiezioni. Nei giorni che seguirono cercai di rispondere a tutte le sue domande, sperando di farlo contento e di placare la sua curiosità, ma lui ogni giorno arrivava e mi sottoponeva nuove domande. Erano passati ormai quattro mesi e la primavera era alle porte, quando una mattina entrò in casa in lacrime stringendo il suo orsacchiotto. Mi buttò le braccia al collo, cosa che mi lasciò perplesso perché non ci ero abituato, e pianse. Gli accarezzai la testa e cercai di capire cosa aveva. Era tutto inutile: non voleva parlare. Piangeva e basta. Gli diedi un po’ di tè e lo feci sedere sul divano. Passarono le ore e lui si calmò. Aprì la bocca e ne uscì un’unica frase nitida e chiara “Sono rimasto solo”. Non capii subito cosa volesse dire, non feci domande ancora per qualche minuto poi chiesi spiegazioni. Un fiume di parole uscì dalla bocca di quel bambino. Parole di rabbia, parole di terrore. Mi disse che suo padre era partito per la guerra, volontario nell’esercito francese. Lo abbracciai e chiesi dove fosse sua madre; un altro fiume di parole e di lacrime, questa volta però di dolore e di colpa. Sua madre era morta dandolo alla luce. Non mi azzardai a chiedere altro, preferii tacere. Gli dissi che se voleva poteva stare da me, che ci avrei pensato io a lui. Gli dissi di andare a prendere le sue cose e di tornare qui. Uscì di casa. Non piangeva più. Non correva più. Forse la libertà non gli interessava più voleva solo la sua famiglia. Tornò da me in serata, mi chiese dove avrebbe dormito. Glielo indicai, prese la sua coperta e si appoggiò su quello che sarebbe diventato il suo letto e si coprì la testa con il cuscino. Non lo sentii emettere nessun suono. Mi avvicinai a lui e lo ascoltai. Respirava e piangeva. Lui, che aveva sognato una pace per tutti, era stato privato dell’unica persona che gli era rimasta da una guerra crudele. Ora più che mai aveva bisogno del mio aiuto. Passò una settimana dove non ci dicemmo molto. Poi tutto a un tratto Klaus cambiò, qualcosa scattò in lui e mi disse che voleva riprendere le lezioni, voleva sapere tutto, voleva ascoltare la radio, voleva sapere come andava la guerra. Mi stupii molto di questo cambiamento e pensai che doveva avere una personalità davvero forte. Lo ammirai e lo invidiai per quella curiosità che non aveva certo caratterizzato la mia vita. Io ero codardo, lui era coraggiosissimo. Era arrivato il momento di fare della mia vita qualcosa di utile: dovevo dare a Klaus quello che voleva. Presi tutto il coraggio che avevo e gli dissi che lo avrei iscritto a scuola. Sarebbe stato un sacrificio, perché i soldi erano pochi, ma lui doveva avere la possibilità di essere istruito a dovere. Mi fu molto grato di questa decisione, perché aveva capito che era un periodo difficile, e mi disse che un giorno mi avrebbe ripagato. Pensavo che fosse una promessa vana, priva di senso; mi sarei accorto solo dopo molti anni che lui ce l’avrebbe messa tutta per ripagarmi e ci sarebbe riuscito. La mattina andava a scuola e il pomeriggio quando tornava mi raccontava ogni cosa che aveva imparato; era molto bravo e veloce nell’apprendere, mi faceva sentire molto felice. Non rimpiansi mai quegli anni di vita un po’ stentata, a causa dall’ingente somma che mi serviva per mantenerlo a scuola, sperai solo che la guerra finisse presto. Gli anni passarono: era il 1943. Quella mattina di marzo ci sconvolse la vita. Klaus aveva 13 anni. Arrivò il postino con una lettera, anzi due lettere: erano due convocazioni dei tedeschi per andare nei campi di lavoro in Germania. Eravamo ebrei e dovevamo aspettarcelo. La Germania aveva occupato il paese tre anni prima creando molti disagi, molte famiglie ebree con il pretesto dei campi di lavoro erano sparite nel nulla e la voce che fossero state sterminate era sempre più incalzante. La notizia ci diede un brutto colpo. Klaus si trovava combattuto tra i suoi ideali che da sempre aveva sostenuto e l’imposizione di un regime non suo che però poteva disporre della sua vita come voleva. Io ero preso dal panico, purtroppo non avevo nobili intenzioni come lui, volevo solo morire di vecchiaia. Decisi che era meglio partire e tentare la fuga una volta arrivato in Germania oppure durante il viaggio. Klaus, invece, era distrutto: non sapeva cosa fare. Sapeva solo che non voleva morire perché voleva realizzare il suo sogno. Si rannicchiava nel suo letto e parlava nel sonno. Passandogli accanto lo sentivo chiedersi cosa avrebbe fatto suo padre: sarebbe fuggito o si sarebbe sottomesso al regime? e cosa invece voleva lui. Infine decise di partire con me. Lasciammo la nostra casa tristi e impauriti. Ci caricarono sul treno e facemmo un lungo viaggio. Una notte ci fermfermammo improvvisamente. Non so cosa fosse accaduto al treno, ma si fermò. Klaus non ci pensò due volte, mi scosse dal mio giaciglio e mi disse di fare piano. Sgattaiolammo fuori dal treno e forse il Signore quella notte ci dimostrò di esistere davvero, perché nessuno si accorse di niente. Fuori dal treno Klaus mi disse un’unica parola “Corri”. Lo seguii. Lui correva. Come quando tornava a casa, correva. E questa volta ero sicuro che fosse mosso da desiderio di libertà. Ci addentrammo in una foresta senza mai smettere di correre. Ad un tratto sentimmo dei rumori e fummo circondati. Erano soldati francesi. Ci chiesero chi fossimo. Raccontammo la nostra storia e loro ci accolsero e ci diedero da mangiare. Dopo aver dormito un po’ ci chiesero che intenzioni avevamo. Rispondemmo che avremmo fatto qualsiasi cosa pur di non essere trovati dai tedeschi. Ci chiesero di arruolarci nell’esercito francese. Accettai anche se sapevo che probabilmente non sarei morto di vecchiaia. Klaus era indeciso. Aveva la pace nel cuore, non voleva diventare un soldato. Alla fine cedette pensando che quell’incontro forse era un segno del Signore per aiutarlo a realizzare il suo sogno. Dopo averci portati a Parigi, forniti di armi e divise, ci mandarono a combattere in Italia. Io venni mandato al nord ad aiutare i partigiani, lui al sud in Sicilia, tra quelli che cercavano di facilitare l’arrivo degli Alleati. Prima di separarci chiedemmo che ci fossero comunicate notizie l’uno dell’altro in caso di morte. Ci salutammo e Klaus mi ringraziò ancora per quello che avevo fatto per lui. Dissi che non ce n’era bisogno perché tanto non era servito a nulla. Ci augurammo buona fortuna. Ci separammo nell’aprile del 1943, un mese dopo l’arrivo della lettera. Da qui le nostre storie si dividono e io non ebbi molta fortuna. Mi ferirono gravemente durante un assalto alle trincee nemiche e fui rimandato a casa mia. Non mi ripresi più da quel colpo, rimasi paralizzato e dovetti assumere qualcuno che badasse a me. Non so se Klaus seppe mai di tutto questo. Io non ricevetti nessuna notizia di lui e vivevo nella speranza che non ne arrivassero dall’esercito perché il mio cuore non avrebbe retto se avessi saputo che era morto. Quello che sto per dirvi ora lo seppi dopo la fine delle guerra, da una lettera anonima che portava un indirizzo finlandese al posto del mittente. Dalla lettera e da quelle che ne seguirono seppi che Klaus in Sicilia era riuscito a contattare gli Americani e con molto coraggio aveva dato loro la possibilità di rompere le difese tedesche ed entrare in Italia per liberare il paese dal regime nazista. Combatté al loro fianco con dedizione e aiutò bambini e donne portando un po’ di sollievo. Quando la guerra finì chiese soltanto un biglietto aereo di sola andata per una qualsiasi capitale europea. Gli americani gli diedero ciò che chiedeva e quando gli offrirono denaro disse di non volerne, perché del denaro non sapeva che farsene. Chiese di aiutarlo a portare la pace nel mondo. Nessuno capì cosa intendeva. Klaus partì per la Finlandia e là realizzò il suo sogno. Ogni anno lui porta la pace a tutti quanti come aveva sempre desiderato. A me ha portato l’orsetto di peluches che non ho mai avuto, perché i bambini che sono cresciuti durante la prima guerra mondiale non avevano peluches. E a voi?

Questo articolo è stato pubblicato il martedì, ottobre 24th, 2006 alle 21:49 ed è archiviato in I testi delle favole, III edizione 2006, Una favola per la Pace. . Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il Feed RSS 2.0 feed. I commenti sono chiusi, ma puoi fare un trackback dal tuo sito.



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