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Guenther Anders: Tesi Sull’Età atomica

20 novembre 2005 di roberto

Dall’odierno “La domenica della nonviolenza” una riflessione significativa di Guenther Anders. Un testo apocalittico, significativo nel ricordare la nostra era come quella in cui in ogni momento - e a causa del potere atomico - l’intero pianeta può venire distrutto.
Una “fine dei tempi” però non segnata da un destino, dal momento che contro questa prospettiva siamo ancora chiamati a lottare.

Per una nota biografica dell’autore, e per le sue ulteriori riflessioni presenti, si rimanda al testo prodotto oggi dal Centro di ricerca per la pace, nel sito di Peacelink.


Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, e’
cominciata un nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque
momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel
giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni
momento, cio’ significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti.
Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca e’
l’ultima: poiche’ la sua differenza specifica, la possibilita’
dell’autodistruzione del genere umano, non puo’ aver fine - che con la fine
stessa.
*
Eta’ finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come
“dilazione”; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato
il problema morale fondamentale: alla domanda “Come dobbiamo vivere?” si e’
sostituita quella: “Vivremo ancora?”. Alla domanda del “come” c’e’ - per noi
che viviamo in questa proroga - una sola risposta: “Dobbiamo fare in modo
che l’eta’ finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei
tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo”.
Poiche’ crediamo alla possibilita’ di una “fine dei tempi”, possiamo dirci
apocalittici; ma poiche’ lottiamo contro l”apocalissi da noi stessi creata,
siamo (e’ un tipo che non c’e’ mai stato finora) “nemici dell’apocalissi”.
*
Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella
situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale
situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche “armi atomiche”, e’ un
inganno. Poiche’ la situazione attuale e’ determinata esclusivamente
dall’esistenza di “armi atomiche”, e’ vero il contrario: che le cosiddette
azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
*
Non arma ma nemico. Cio’ contro cui lottiamo, non e’ questo o
quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi
atomici, ma la situazione atomica in se’. Poiche’ questo nemico e’ nemico di
tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici
dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e
manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si
tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta
e spreco di tempo.
*
Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers
fino a Strauss suona: “La minaccia totalitaria puo’ essere neutralizzata
solo con la minaccia della distruzione totale”. E’ un argomento che non
regge. 1) La bomba atomica e’ stata impiegata, e in una situazione in cui
non c’era affatto il pericolo, per chi la impiego’, di soccombere a un
potere totalitario. 2) L’argomento e’ un relitto dell’epoca del monopolio
atomico; oggi e’ un argomento suicida. 3) Lo slogan “totalitario” e’ desunto
da una situazione politica, che non solo e’ gia’ essenzialmente mutata, ma
continuera’ a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita’
di trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione
totale, e’ totalitaria per sua natura: poiche’ vive del ricatto e trasforma
la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse
della liberta’, l’assoluta privazione della stessa, e’ il non plus ultra
dell’ipocrisia.
*
Cio’ che puo’ colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non
badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle “cortine”. Cosi’,
nell’eta’ finale, non ci sono piu’ distanze. Ognuno puo’ colpire chiunque ed
essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli
effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale,
ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di cio’ che ci
riguarda, e cioe’ l’orizzonte della nostra responsabilita’, coincida con
l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioe’ che
diventi anch’esso globale. Non ci sono piu’ che “vicini”.
*
Internazionale delle generazioni. Cio’ che si tratta di ampliare, non e’
solo l’orizzonte spaziale della responsabilita’ per i nostri vicini, ma
anche quello temporale. Poiche’ le nostre azioni odierne, per esempio le
esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano
nell’ambito del nostro presente. Tutto cio’ che e’ “venturo” e’ gia’ qui,
presso di noi, poiche’ dipende da noi. C’e', oggi, un’”internazionale delle
generazioni”, a cui appartengono gia’ anche i nostri nipoti. Sono i nostri
vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si
appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora
costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati
appartengono a questa “internazionale”: poiche’ con la nostra fine
perirebbero anch’essi, per la seconda volta (se cosi’ si puo’ dire) e
definitivamente. Anche adesso sono “solo stati”; ma con questa seconda morte
sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
*
Il nulla non concepito. Cio’ che conferisce il massimo di pericolosita’ al
pericolo apocalittico in cui viviamo, e’ il fatto che non siamo attrezzati
alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) e’
gia’ di per se’ abbastanza difficile; ma e’ un gioco da bambini rispetto al
compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiche’ questo
nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l’inesistenza di
qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e
permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioe’ il mondo
stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa “astrazione totale” (che
corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell’immaginazione, alla nostra
capacita’ di distruzione totale) trascende le forze della nostra
immaginazione naturale. “Trascendenza del negativo”. Ma poiche’, come
homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla
totale), la capacita’ limitata della nostra immaginazione (la nostra
“ottusita’”) non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di
rappresentarci anche il nulla.
*
Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca:
“Noi siamo inferiori a noi stessi”, siamo incapaci di farci un’immagine di
cio’ che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo “utopisti a
rovescio”: mentre gli utopisti non sanno produrre cio’ che concepiscono, noi
non sappiamo immaginare cio’ che abbiamo prodotto.
*
Lo “scarto prometeico”. Non e’ questo un fatto fra gli altri; esso
definisce, invece, la situazione morale dell’uomo odierno: la frattura che
divide l’uomo (o l’umanita’) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra
il dovere e l’inclinazione, ma fra la nostra capacita’ produttiva e la
nostra capacita’ immaginativa. Lo “scarto prometeico”.
*
Il “sopraliminare”. Questo “scarto” non divide solo immaginazione e
produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilita’ e produzione.
Si puo’ forse immaginare, sentire, o ci si puo’ assumere la responsabilita’,
dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto
piu’ grande e’ l’effetto possibile dell’agire, e tanto piu’ e’ difficile
concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto piu’ grande lo “scarto”,
tanto piu’ debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone
premendo un tasto, e’ infinitamente piu’ facile che ammazzare una sola
persona. Al “subliminare”, noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo
per provocare gia’ una reazione), corrisponde il “sopraliminare”: cio’ che
e’ troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un
meccanismo inibitorio).
*
La sensibilita’ deforma, la fantasia e’ realistica. Poiche’ il nostro
orizzonte vitale (l’orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti)
e l’orizzonte dei nostri effetti e’ ormai illimitato, siamo tenuti, anche se
questo tentativo contraddice alla “naturale ottusita’” della nostra
immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua
naturale insufficienza, e’ solo l’immaginazione che puo’ fungere da organo
della verita’. In ogni caso, non e’ certo la percezione. Che e’ una “falsa
testimone”: molto, ma molto piu’ falsa di quanto avesse inteso ammonire la
filosofia greca. Poiche’ la sensibilita’ e’ - per principio - miope e
limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli
“escapisti” di oggi non e’ la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri
normali (dipinti, cioe’, secondo la prospettiva normale): benche’ realistici
in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perche’ sono in
contrasto con la realta’ del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente
dilatati.
*
Il coraggio di aver paura. La viva “rappresentazione del nulla” non si
identifica con cio’ che si intende in psicologia per “rappresentazione”; ma
si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non
corrispondere alla realta’ e al grado della minaccia, e’ quindi il grado
della nostra angoscia. - Nulla di piu’ falso della frase cara alle persone
di mezza cultura, per cui vivremmo gia’ nell’”epoca dell’angoscia”. Questa
tesi ci e’ inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che
noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi
viviamo piuttosto nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine
all’angoscia. L’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa
quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura.
Postulato: “Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche
quello di far paura. Fa’ paura al tuo vicino come a te stesso”. Va da se’
che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1)
Un’angoscia senza timore, poiche’ esclude la paura di quelli che potrebbero
schernirci come paurosi. 2) Un’angoscia vivificante, poiche’ invece di
rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un’angoscia
amante, che ha paura per il mondo, e non solo di cio’ che potrebbe
capitarci.
*
Fallimento produttivo. L’imperativo di allargare la portata della nostra
immaginazione e della nostra angoscia finche’ corrispondano a quella di cio’
che possiamo produrre e provocare, si rivelera’ continuamente
irrealizzabile. Non e’ nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di
fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci
spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del
tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso e’ salutare, poiche’ ci mette in
guardia contro il pericolo di continuare a produrre cio’ che non possiamo
immaginare.
*
Trasferimento della distanza. Riassumendo cio’ che si e’ detto sulla “fine
delle distanze” e sullo “scarto” tra le varie facolta’ (e solo cosi’ ci si
puo’ fare un’idea completa della situazione), risulta che le distanze
spaziali e temporali sono state bensi’ “soppresse”; ma questa soppressione
e’ stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di “distanza”: quella,
che diventa ogni giorno piu’ grande, fra la produzione e la capacita’ di
immaginare cio’ che si produce.
*
Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo
diventati maggiori di cio’ che possiamo concepire (sentire, o di cui
possiamo assumerci la responsabilita’), ma anche maggiori di cio’ che
possiamo utilizzare sensatamente. E’ noto che la nostra produzione e la
nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a
produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta
trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non
possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Cosi’ ci siamo
messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi
prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le
forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette “pulite”,
sono senza precedenti nel loro genere: poiche’ con essi cerchiamo di
migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioe’ diminuendo i loro effetti.
L’aumento dei prodotti non ha quindi piu’ senso. Se il numero e gli effetti
delle armi gia’ oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della
distruzione del genere umano, l’aumento e miglioramento della produzione,
che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora piu’ assurdi; e
dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa
hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della
concorrenza - ha perduto ogni senso. Piu’ morto che morto non e’ possibile
diventare. Distruggere meglio di quanto gia’ si possa, non sara’ possibile
neppure in seguito.
*
Richiamarsi alla competenza e’ prova d’incompetenza morale. Sarebbe una
leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i “signori
dell’apocalissi”, quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a
posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano piu’ di
noi all’altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare
l’inaudito meglio di noi, semplici “morituri”; o anche solo che siano
consapevoli di doverlo fare. Assai piu’ legittimo e’ il sospetto: che ne
siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo
incompetenti nel “campo dei problemi atomici e del riarmo”, e invitandoci a
non “immischiarci”. L’uso di questi termini e’ addirittura la prova della
loro incompetenza morale: poiche’ in tal modo essi mostrano di credere che
la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del “to
be or not to be” dell’umanita’; e di considerare l’apocalissi come un “ramo
specifico”. E’ vero che molti di loro si appellano alla “competenza” solo
per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola
“democrazia” ha un senso, e’ proprio quello che abbiamo il diritto e il
dovere di partecipare alle decisioni che concernono la “res publica”, che
vanno, cioe’, al di la’ della nostra competenza professionale e non ci
riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si
puo’ dire che cosi’ facendo ci “immischiamo” di nulla, poiche’ come
cittadini e come uomini siamo “immischiati” da sempre, perche’ anche noi
siamo la “res publica”. E un problema piu’ “pubblico” dell’attuale decisione
sulla nostra sopravvivenza non c’e’ mai stato e non ci sara’ mai.
Rinunciando a “immischiarci”, mancheremmo anche al nostro dovere
democratico.
*
Liquidazione dell’”agire”. La distruzione possibile dell’umanita’ appare
come un’”azione”; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E’
giusto? Si’ e no. Perche’ no?
Perche’ l’”agire”" in senso behavioristico non esiste pressoche’ piu’. E
cioe’: poiche’ cio’ che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come
tale dall’agente, e’ stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal
lavorare; 2) dall’azionare.
1) Lavoro come surrogato dell’azione. Gia’ quelli che erano impiegati negli
impianti di liquidazione hitleriani non avevano “fatto nulla”, credevano di
non aver fatto nulla perche’ si erano limitati a “lavorare”. Per questo
“lavorare” intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella
fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l’eidos del lavoro rimane
invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda piu’, e non puo’ ne’
deve piu’ riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno e’ che esso resta
moralmente neutrale: “non olet”, nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo
lavoro puo’ macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione
sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come
mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all’autore di un eccidio di
sentirsi colpevole, poiche’ non solo non occorre rispondere del lavoro che
si fa, ma esso - in teoria - non puo’ rendere colpevoli. Stando cosi’ le
cose, dobbiamo rovesciare l’equazione attuale (”ogni agire e’ lavorare”)
nell’altra: “ogni lavorare e’ un agire”.
2) Azionare come surrogato del lavoro. Cio’ che vale per il lavoro, vale a
maggior ragione per l’azionare, poiche’ l’azionare e’ il lavoro in cui e’
abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello
sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realta’, si puo’ fare in tal
modo pressoche’ tutto, si puo’ avviare una serie di azionamenti successivi
schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In
questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non e’
piu’ un lavoro (per non parlare di un’azione). Propriamente parlando non si
fa nulla (anche se l’effetto di questo non-far-nulla e’ il nulla e
l’annientamento). L’uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora
necessario) non si accorge piu’ nemmeno di fare qualcosa; e poiche’ il luogo
dell’azione e quello che la subisce non coincidono piu’, poiche’ la causa e
l’effetto sono dissociati, non puo’ vedere che cosa fa. “Schizotopia”, in
analogia a “schizofrenia”. E’ chiaro che solo chi arriva a immaginare
l’effetto ha la possibilita’ della verita’; la percezione non serve a nulla.
Questo genere di mimetizzamento e’ senza precedenti: mentre prima i
mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell’azione, e
cioe’ al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli
autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all’autore
di sapere quello che fa. In questo senso anche l’autore e’ una vittima; in
questo senso Eatherly e’ una delle vittime della sua azione.
*
Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci
istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiche’ oggi le menzogne
non hanno piu’ bisogno di figurare come asserzioni (”fine delle ideologie”).
La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento
davanti a cui non puo’ piu’ sorgere il sospetto che possa trattarsi di
menzogne; e cio’ perche’ questi travestimenti non sono piu’ asserzioni.
Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verita’, ora
si camuffano in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno
l’impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realta’, hanno
gia’ in se’ il loro (bugiardo) predicato. Cosi’, per esempio, l’espressione
“armi atomiche” e’ gia’ un’asserzione menzognera, poiche’ sottintende,
poiche’ da’ per scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realta’ subentrano (e siamo al punto
che abbiamo appena trattato) realta’ falsificate. Cosi’ determinate azioni,
presentandosi come “lavori”, sono rese diverse e irriconoscibili; cose’
irriconoscibili, e diverse da un’azione, che non rivelano piu’ (neppure
all’agente) quello che sono (e cioe’ azioni); e gli permettono, purche’
lavori “coscienziosamente’, di essere un criminale con la miglior coscienza
del mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finche’ l’agire si traveste
ancora da “lavorare”, e’ pur sempre l’uomo ad essere attivo; anche se non sa
che cosa fa lavorando, e cioe’ che agisce. La menzogna celebra il suo
trionfo solo quando liquida anche quest’ultimo residuo: il che e’ gia’
accaduto. Poiche’ l’agire si e’ trasferito (naturalmente in seguito
all’agire degli uomini) dalle mani dell’uomo in tutt’altra sfera: in quella
dei prodotti. Essi sono, per cosi’ dire, “azioni incarnate”. La bomba
atomica (per il semplice fatto di esistere) e’ un ricatto costante: e
nessuno potra’ negare che il ricatto e’ un’azione. Qui la menzogna ha
trovato la sua forma piu’ menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani
pulite, non c’entriamo. Assurdita’ della situazione: nell’atto stesso in cui
siamo capaci dell’azione piu’ enorme - la distruzione del mondo - l’”agire”,
in apparenza, e’ completamente scomparso. Poiche’ la semplice esistenza dei
nostri prodotti e’ gia’ un “agire”, la domanda consueta: che cosa dobbiamo
“fare” dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come
“deterrent”), e’ una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette
che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
*
Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l’espressione
“reificazione” non si coglie il fatto che i prodotti sono, per cosi’ dire,
“agire incarnato”, poiche’ essa indica esclusivamente il fatto che l’uomo e’
ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell’altro lato
(trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioe’ del
fatto che cio’ che e’ sottratto all’uomo dalla reificazione, si aggiunge ai
prodotti: i quali, facendo qualcosa gia’ per il semplice fatto di esistere,
diventano pseudopersone.
*
Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi
principii. Cosi’, per esempio, il principio delle “armi atomiche” e’ affatto
nichilistico, poiche’ per esse “tutto e’ uguale”. In esse il nichilismo ha
toccato il suo culmine, dando luogo all’”annichilismo” piu’ totale.
Poiche’ il nostro agire si e’ trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame
di coscienza non puo’ consistere oggi soltanto nell’ascoltare la voce nel
nostro petto, ma anche nel captare i principii e le massime mute dei nostri
lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel
trasferimento: e cioe’ nel compiere solo quei lavori dei cui effetti
potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e
nell’avere solo quei prodotti la cui presenza “incarna” un agire che
potremmo assumerci come agire personale.
*
Macabra liquidazione dell’ostilita’. Se il luogo dell’azione e quello che la
subisce sono, come si e’ detto, dissociati, e non si soffre piu’ nel luogo
dell’azione, l’agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire
subire senza causa riconoscibile. Si determina cosi’ un’assenza d’ostilita’,
peraltro affatto fallace.
La guerra atomica possibile sara’ la piu’ priva d’odio che si sia mai vista.
Chi colpisce non odiera’ il nemico, poiche’ non potra’ vederlo; e la vittima
non odiera’ chi lo colpisce, poiche’ questi non sara’ reperibile. Nulla di
piu’ macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l’amore
positivo). Cio’ che piu’ sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima,
e’ quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del
colpo.
Certo l’odio sara’ ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sara’
quindi prodotto come articolo a se’. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al
caso, s’inventeranno) oggetti d’odio ben visibili e identificabili, “ebrei”
di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiche’ per poter odiare
veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest’odio non
potra’ entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e
proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelera’ anche in cio’, che
odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
*
Non solo per quest’ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna
aggiungere che sono state scritte perche’ non risultino vere. Poiche’ esse
potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta
probabilita’, e se agiremo in conseguenza. Nulla di piu’ terribile che aver
ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita’ della
catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore
degli uomini, la massima cinica: “Se siamo disperati, che ce ne importa?
Continuiamo come se non lo fossimo!”.

Guenther Anders

Questo articolo è stato pubblicato il domenica, novembre 20th, 2005 alle 19:44 ed è archiviato in Nel mondo. Tags: . Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il Feed RSS 2.0 feed. I commenti sono chiusi, ma puoi fare un trackback dal tuo sito.



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